martedì 21 giugno 2011

Rabbit Hole

di John Cameron Mitchell

Rabbit Hole, USA 2010, drammatico, 91'. Con Nicole Kidman, Aaron Eckhart, Dianne Wiest, Miles Teller, Tammy Blanchard, Sandra Oh, Giancarlo Esposito, Jon Tenney, Stephen Mailer, Mike Doyle, Roberta Wallach, Patricia Kalember, Ali Marsh, Yetta Gottesman, Colin Mitchell, Deidre Goodwin, Julie Lauren.

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Locandina originale

Becca e Howie Corbett sono felicemente sposati: una delle tante coppie benestanti delle villette residenziali del Queens. Nelle loro vite non sembra mancare nulla, ma in realtà da otto mesi le loro esistenze sono come sospese, congelate nell’elaborazione di un grave lutto. Da quando il loro unico figlio di quattro anni è stato investito da una macchina, i due hanno sviluppato un meccanismo opposto di rimozione: Howie tende a non voler cancellare del tutto l’evento e a questo scopo fa rivivere ogni sera la presenza del figlio tramite i filmati del proprio telefonino; Becca cerca invece volontario isolamento, dedicandosi alla cura del giardino e della cucina, oltre che all’eliminazione sistematica di tracce e ricordi. In questo limbo che sembra impossibile da superare, Howie comincia a legare con una donna conosciuta durante una seduta di terapia di gruppo, mentre Becca decide di aprirsi con il giovane adolescente che era alla guida della macchina quel giorno fatale. Basandosi sull’omonima pièce teatrale grazie a cui David Lindsay-Abaire (che firma anche la sceneggiatura del film) ha vinto il Premio Pulitzer, il regista di Hedwig e Shortbus si allontana con Rabbit Hole dalle atmosfere trasgressive dei precedenti film per tentare di affrontare il tema del lutto familiare con delicatezza e approfondimento psicologico. Se però la scelta di aprire il film ad otto mesi di distanza dal tragico evento e di rivelare così a poco a poco allo spettatore gli avvenimenti cronologicamente precedenti contribuisce a rendere più misteriosa una trama altrimenti decisamente scontata, la sceneggiatura si rivela poi incapace di dare anima e corpo alla rappresentazione dei diversi modi di elaborare non solo il dolore più grande — quello della perdita di un figlio — ma anche i sensi di colpa che ne conseguono: privilegiando quasi completamente i dialoghi (o meglio, le battute ad effetto) sulle immagini, il film imbocca una dopo l’altra tutte le strade più prevedibili e facili e si accontenta di un impianto sostanzialmente televisivo che non è in grado quasi per niente di emozionare lo spettatore. Così come le interpretazioni dei due attori protagonisti non sono in grado di far pulsare di vita vera dei personaggi che appaiono eccessivamente “scritti” e costruiti a tavolino: se la Kidman, nonostante la nomination all’Oscar, si rifugia nel buon mestiere, un Eckhart generalmente moderato appare talvolta forse un po’ troppo sopra le righe; e la migliore interpretazione è forse quella di Dianne Wiest nel ruolo della madre di Becca che come lei ha perso, pur se in circostanze diverse, un figlio. Purtroppo, non c’è vera commozione nella commozione programmatica di Rabbit Hole, e alla fine l’unica cosa davvero emozionante del film resta il (bellissimo) titolo carrolliano e la sua giustificazione: un fumetto che appare come l’unica via di fuga possibile — al pari della tana del Bianconiglio — da una realtà ineluttabilmente dolorosa verso un insieme di mondi paralleli che racchiudono forse in sé tutte le realtà migliori di quella in cui ci tocca vivere.

Rabbit Hole