di Dino Risi
Italia 1962, commedia, 108', b/n. Con Vittorio Gassman, Jean-Louis Trintignant, Catherine Spaak, Claudio Gora, Luciana Angiolillo, Linda Sini, Barbara Simon, Lilly Darelli, Mila Stanic, Nando Angelini, Luigi Zerbinati, Franca Polesello, Edda Ferronao, John Francis Lane, Bruna Simionato, Annette Vadim.
Il sorpasso è un incontro tra due mondi e personalità agli antipodi. È il capolavoro di un Dino Risi in stato di grazia, sia contenutistico che formale, grazie anche a collaboratori di prim’ordine (Alfio Contini incornicia il film in un bel bianco e nero). Siamo a Roma durante il Ferragosto, quando la città è quasi completamente deserta. All’inizio del film, vediamo Bruno Cortona, quarantenne vigoroso amante della guida sportiva e delle belle donne, vagare alla ricerca di un pacchetto di sigarette e di un telefono pubblico. Lo accoglie in casa lo studente di legge Roberto Mariani, un ragazzo tranquillo rimasto in città per preparare gli esami. Sulla spinta dell’invadenza ed esuberanza del Cortona, i due intraprendono un viaggio in auto che li porterà verso mete occasionali sempre più distanti. Si è sottolineato più volte come il personaggio interpretato in questo film da un Vittorio Gassman particolarmente istrionico — la parte era stata inizialmente scritta per Alberto Sordi — incarni come pochi altri molti difetti degli italiani, nel periodo del Boom ma non solo: l’euforia artificiale, l’irresponsabilità, la furbizia, la spavalderia che sfocia a tratti nell’arroganza, la pienezza di vita dietro cui si nasconde il vuoto più sconcertante. Ma anche alcune qualità: la disponibilità verso gli altri, la generosità, la grande umanità. Quello che rende Il sorpasso uno dei capolavori della commedia all’italiana è quindi, innanzitutto, il ritratto dei due protagonisti, che non si potrebbe immaginare più diversi. Bruno infatti è sicuro di sé, spigliato e deciso in ogni cosa, un po’ prepotente. È ignorante e sempliciotto, gli piace la musica di Modugno e odia il cinema di Antonioni che, dice, lo fa dormire: dietro il personaggio di Bruno si nasconde, nemmeno troppo velatamente, il regista, che ha sempre nutrito dei sensi d’inferiorità, in fondo un po’ autolesionisti nonché infantili, verso il collega ferrarese. Roberto (un Jean-Louis Trintignant indimenticabile) è invece timido e impacciato, onesto e istruito, educato ed ingenuo. La sua voce fuori campo ci rende addirittura partecipi dei suoi pensieri da timido: rimane chiuso in una toilette ma si vergogna a chiamare aiuto e, a casa degli zii, bastano pochi minuti perché sembri lui l’estraneo e Bruno il nipote. L’altro infatti non pensa, agisce. Il che non significa certo che sia uno stupido. All’inizio appare semmai spensierato, l’impressione è quella di uno che — al contrario di Roberto — sa godersi la vita in ogni suo aspetto e istante («Ah Robbè, che te frega delle tristezze, lo sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c’ha, giorno per giorno. Fino a quanno schiatta, se capisce…»). Ma poi, a poco a poco, appare sempre più evidente come in realtà Bruno agisca continuamente proprio per evitare di pensare. Certo, le sue corse a bordo della mitica Lancia Aurelia B24 non sono in alcun modo paragonabili a quelle — disperate ed autodistruttive — di Robert Stack (bottiglia alla mano) in Come le foglie al vento di Sirk o dei personaggi di Crash di Cronenberg: Bruno è davvero il cialtrone irresponsabile che appare e non c’è nulla di più profondo dietro i suoi comportamenti. Ogni cosa nel film suggerisce un’idea di spensieratezza: la colonna sonora del film (curata da Riz Ortolani) è piena di successi musicali del momento: da Guarda come dondolo e Pinne fucile ed occhiali di Edoardo Vianello a Quando quando quando di Tony Renis, da Saint Tropez Twist di Peppino di Capri a Vecchio frac di Domenico Modugno. Così come il film è pieno di gente che si diverte, che balla (anche con la gamba ingessata!) o che va al mare. Anche se poi i fatti tradiscono una realtà che è tutt’altro che spensierata. Roberto racconta i suoi sogni d’amore adolescenziali a Bruno, che glieli distrugge: lui non ci pensa nemmeno ad impegnarsi con una donna, il suo unico obiettivo è divertirsi. Finché non scopriamo che in realtà Bruno è sposato ed ha addirittura una figlia (una giovanissima Catherine Spaak), che sta con un uomo molto più grande di lei e a cui lui pretenderebbe anche di imporre una disciplina (!). Meglio sposare un uomo di ottant’anni che uno di venti, commenta sarcasticamente la moglie, che dal canto suo non sente certo l’esigenza di cercare un altro uomo, dopo l’esperienza con Bruno. Eppure, nelle scene al mare che seguono, emerge un rapporto comunque positivo tra padre e figlia, nonostante Bruno rischi di fare il cascamorto anche con lei scambiandola per una sconosciuta. «Almeno tu non cambiare, ti prego papà», gli dice lei. Veniamo anche a sapere che, dopotutto, la moglie parla di lui alla figlia come di un “vincitore”. Ma è Bruno un vincitore? Nel finale, quello celeberrimo e tragicissimo, Risi sprigiona tutto il suo pessimismo e la sua sfiducia nei confronti di un’Italia furbesca e caratterizzata da pseudovalori morali (che portano appunto a considerare un personaggio come Bruno un “vincitore”). Ma, molto prima dell’interpretazione sociologica, un groppo alla gola è la dimostrazione più immediata della capacità della sceneggiatura — scritta dal regista con Ettore Scola e Ruggero Maccari — di coinvolgere emotivamente lo spettatore grazie a personaggi psicologicamente complessi (non è un caso se il regista è laureato in psichiatria), di profonda umanità. Il sorpasso racconta, in fondo, di un’amicizia, e lo fa con la forma del road-movie, il cui classico significato di viaggio di formazione viene però qui in un certo senso ribaltato: Roberto non è migliore né peggiore di Bruno, è solo diverso, ma pagherà caro il suo essere stato “sedotto” dai lati negativi di Bruno e l’aver rinunciato alla sua diversità. Quella di Risi, in fondo, è anche un’autocritica, siccome è evidente che l’attrazione di Roberto nei confronti di Bruno coincide direttamente con la sua attrazione. La critica de Il sorpasso è dunque perfetta perché auto-inclusiva, oltre che profetica: in quel burrone oggi, cinquant’anni dopo, possiamo dire bene di esserci precipitati per davvero.