di Robert Bresson
Pickpocket, Francia 1959, drammatico, 75', b/n. Con Martin Lassalle, Marika Green, Pierre Leymarie, Jean Pélégri, Dolly Scal.
I film più disperati vengono scambiati spesso per film freddi e senza sentimento. Ad un’analisi superficiale, rischiano infatti di risultare intellettualistici, cerebrali e forse addirittura insinceri. Come se la disperazione emergesse dalla mente e non invece dal profondo del cuore. Come se costituisse una dichiarazione di resa e coincidesse con una non-volontà di cambiamento. In realtà, la disperazione rappresenta quasi sempre una manifestazione, forse la più superficiale ed evidente, di una voglia di vivere che è, contemporaneamente, voglia di non sopravvivere. La disperazione è diretta conseguenza di una non-accettazione della realtà e quindi di una vera e propria ribellione: checché se ne dica, non v’è alcun immobilismo nella disperazione vera. La disperazione nasce da un bisogno di umanità, di sentimento, di amore che — pur nella lancinante sofferenza causata da questo bisogno — è senza dubbio preferibile ad una passiva accettazione della scomparsa degli stessi (ciò che Antonioni chiamava “malattia dei sentimenti” e che emerge in particolar modo dal contrasto del dittico Il grido-L’avventura). Ora, molti dei personaggi di Bresson sono calati in un mondo così disumano e insensibile da far sembrare essi stessi (e di traslato, il regista) senza cuore. Basti pensare a un film come Mouchette, che cala un’innocente bambina in un mondo che non è nemmeno crudele come quello di un Fellini prima maniera: è semplicemente indifferente. O al povero asinello di Au hasard Balthazar, che vive il suo calvario parallelamente a quello della sua padroncina. Rispetto ai personaggi di questi due film — successivi nella filmografia di Bresson — il Michel protagonista di Pickpocket, tuttavia, è molto meno “innocente”. Si tratta infatti di un giovane orgogliosamente convinto di essere al di sopra della giustizia e del resto dell’umanità, che arriva a teorizzare la possibilità per alcuni soggetti “superiori” di poter infrangere la legge senza essere puniti, visto il loro (presunto) contributo verso la società. Dopo alcuni furtarelli e l’incontro con un borsaiolo di professione che lo istruisce sui trucchi del mestiere, diventa egli stesso un ladro e insieme a due complici, Jeanne e Jacques, frequenta luoghi affollati, come l’ippodromo e la stazione, dove compie i furti. Ispirandosi lontanamente a Delitto e castigo di Dostoevskij, Bresson mette in scena il percorso interiore del protagonista con la consueta essenzialità e semplicità, formale e narrativa. Nella prima parte del film, Michel ci appare in tutta la sua bassezza morale: si rifiuta di assistere la madre malata e addirittura di farle visita, e il vizio del furto sembra insinuarsi in lui quasi contro la sua volontà. Le magistrali scene, a metà tra l’azione e il documentaristico, che mostrano la rapida scansione temporale dei furti, sono un capolavoro di ritmo e sembrano quasi rappresentare l’attività del ladro come connaturata all’essere umano. Tuttavia, non c’è nulla di predestinato nelle azioni di Michel, è lui a scegliere il proprio destino, a scrivere la propria vita di giorno in giorno: non è un caso se la voce fuori campo presenta gli avvenimenti come un diario e se il film è stato distribuito in Italia anche col titolo Diario di un ladro. Ma basta la tristezza negli occhi del protagonista (interpretato da un attore non professionista la cui inespressività giova genialmente al film), la sua figura trasandata dall’inizio alla fine nonostante i ricchi bottini, per rendere esplicito il dramma interiore del protagonista, che attraverso la sua condotta finisce per rubare a se stesso molto prima che agli altri. Come dimostra il finale, in cui la musica di Jean-Baptiste Lully — già brevemente udita a più riprese nel corso del film — ritorna per commentare, con solenne austerità, la tenera scoperta di un Amore che per il protagonista coincide con la redenzione e con il superamento di tutte le barriere che fino ad allora lo imprigionavano: paradossalmente, è proprio in carcere che Michel finisce per trovare la sua libertà. A Marika Green (rivista in seguito solo in Emmanuelle), che interpreta Jeanne, non serve aprir bocca per toccare il sublime: le è sufficiente sollevare, con umile determinazione, lo sguardo. «Oh Jeanne, che strano cammino ho dovuto percorrere per arrivare fino a te»: chi pensa che Robert Bresson sia un regista cerebrale dovrebbe semplicemente vergognarsi.