di Luchino Visconti
Italia / Francia 1974, drammatico, 121'. Con Burt Lancaster, Silvana Mangano, Helmut Berger, Claudia Marsani, Stefano Patrizi, Elvira Cortese, Philippe Hersent, Guy Tréjan, Jean-Pierre Zola, Umberto Raho, Enzo Fiermonte, Romolo Valli.
Gruppo di famiglia in un interno (titolo bellissimo) è il penultimo film di Luchino Visconti e viene in genere considerato il suo testamento spirituale. Un professore americano ormai anziano (alter ego del regista ben impersonato da Burt Lancaster) ha deciso di ritirarsi tra libri e quadri nella sua casa in un antico palazzo di Roma. La sua quiete viene turbata improvvisamente dall’irruzione di un’affittuaria facoltosa e volgare, la marchesa Bianca Brumonti, che si stabilisce al piano superiore insieme all’amante Konrad, alla figlia Lietta e al di lei fidanzato Stefano. Il professore è inizialmente disgustato dai rappresentanti di una borghesia nuova, tanto arrogante quanto “scandalosa” (Lietta organizza degli incontri a tre nel suo appartamento con Konrad e Stefano), ma poi, comprendendo che i suoi libri ed i suoi quadri non gli bastano più e mitizzando la vitalità della gioventù, finisce quasi per cercare la loro amicizia, fino a quando un nuovo “inquilino” non arriverà al piano superiore nel finale. Visconti affronta i temi della solitudine della vecchiaia e della decadenza del presente rispetto a un passato che non c’è più: la sua è una nostalgia che se da un lato trova espressione nella contrapposizione, visivamente pregnante e profondamente affascinante, tra l’appartamento del professore e quello soprastante che la famiglia rimoderna completamente, dall’altro viene sottolineata inutilmente ed eccessivamente attraverso dialoghi e situazioni spesso troppo espliciti e didascalici, cui gli ottimi attori riescono a sopperire solo parzialmente con il buon mestiere. Il personaggio del professore, in particolare, risulta davvero troppo programmatico (le sequenze più interessanti che lo riguardano sono quelle dei ricordi in cui appaiono brevemente, non accreditate, Dominique Sanda e Claudia Cardinale), mentre molto più felice è la descrizione dei membri della “dissoluta” famiglia borghese moderna, nonostante non si sottragga completamente alla medesima accusa. L’alta tenuta figurativa del film (fotografia di Pasqualino De Santis, scenografie di Mario Garbuglia) è fuori discussione, ma il discorso sullo stupro del vecchio da parte del nuovo suona molto datato, soprattutto quando assume toni apertamente politici, rischiando a volte quasi il ridicolo involontario; per non parlare del fatto che altri registi che chi scrive sente, personalmente, a lui più vicini — su tutti Bellocchio — lo avrebbero volentieri capovolto nello stupro del nuovo da parte del vecchio, come hanno fatto, del resto, nella loro filmografia. Ma questo è un discorso che attiene esclusivamente a una visione personale del mondo, mentre bisogna ammettere che sono in realtà, un po’ paradossalmente, proprio tutte queste squisite contraddizioni (Visconti era un marxista convinto) a fare comunque di Gruppo di famiglia in un interno — nel bene e nel male — un film profondamente viscontiano.