martedì 12 ottobre 2010

L’inferno

di Claude Chabrol

L'enfer, Francia 1993, drammatico, 100'. Con François Cluzet, Emmanuelle Béart, Marc Lavoine, Nathalie Cardone, André Wilms.

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Locandina italiana

Claude Chabrol riprende qui una sceneggiatura che Henri-Georges Clouzot aveva iniziato a mettere in scena nel 1964 con Serge Reggiani e Romy Schneider, prima di essere colto da infarto e dover abbandonare il progetto. Paul è un uomo di successo, è proprietario di un bell’albergo ed ha appena sposato una bella donna, Nelly. Poco dopo il loro matrimonio, però, Paul inizia a cadere sempre più preda di uno stato allucinatorio che lo porta a credere che sua moglie lo tradisca. Quelli che inizialmente potrebbero sembrare dei leciti sospetti si intensificano sempre di più, fino a sfociare in un inferno paranoico “senza fine” nel quale i due protagonisti finiscono per rimanere ingabbiati. Tra tutti i sentimenti umani, la gelosia è senza dubbio uno dei più contraddittori e controproducenti. Essere gelosi infatti significa amare una persona al punto da temerne continuamente la perdita; ma siccome significa anche necessariamente non avere fiducia nella sua fedeltà, il risultato finisce spesso per essere la negazione stessa del sentimento che l’ha originata (l’amore diviene possesso). Certo, se contenuta entro certi limiti la gelosia può essere piacevole: subito dopo il matrimonio, quando Nelly si accorge che suo marito è geloso, è piacevolmente sorpresa e certamente non infastidita dalla cosa. Oppure, la gelosia può essere lecita, quando effettivamente esistono dei motivi per essere gelosi. Ma il film di Chabrol affronta un caso patologico di gelosia e sospetto, che conduce il protagonista (interpretato da un François Cluzet che riesce solo parzialmente a giostrarsi tra il lato tragico e comico del suo progressivo delirio) a diventare sempre più diffidente della moglie, ad iniziare a pedinarla di nascosto e a tenerla continuamente sotto controllo e sotto interrogatorio. La prima parte del film è senza dubbio la più chabroliana, quella in cui il regista fa sua la sceneggiatura di Clouzot soprattutto grazie all’ambientazione in quella provincia francese a lui tanto cara. La seconda parte invece descrive, coraggiosamente, uno stato mentale di puro delirio attraverso una progressiva dilatazione del tempo: il finale davvero cerebrale è qui giustificato, siccome l’obiettivo è dichiaratamente quello di penetrare all’interno di un cervello malato. Quello che però lascia perplessi de L’inferno è proprio la sua scelta di focalizzarsi esclusivamente (come comunque era già nelle intenzioni di Clouzot) sull’aspetto clinico della gelosia, invece di indagare le conseguenze che una sua versione non estremizzata può avere sulla vita di coppia, come hanno fatto, prima e dopo, tanti altri film (ad esempio, Eyes Wide Shut di Kubrick). Finendo così con il far assomigliare il film, paradossalmente, proprio al sentimento che vorrebbe criticare e che — come suggerisce l’ultimissima inquadratura, con Paul davanti alla finestra che mette a fuoco il vetro anziché lo sfondo — conduce a fissarsi sul possesso, perdendo di vista ciò che davvero conta (l’amore).

L'inferno