di Lars von Trier
Melancholia, Danimarca / Svezia / Francia / Germania 2011, drammatico, 136'. Con Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Kiefer Sutherland, Charlotte Rampling, John Hurt, Alexander Skarsgård, Stellan Skarsgård, Brady Corbet, Udo Kier, James Cagnard, Jesper Christensen, Stefan Cronwall, Deborah Fronko, Cameron Spurr.
Lars von Trier è un grande buffone, quando decide di fare il buffone. Inizio a buttarla lì, e mi prendo il tempo necessario per spiegare il perché. Dopo l’inguardabile Antichrist, ci siamo recati in sala fiduciosi che non sarebbe stato possibile far di peggio. E la buona notizia (si fa per dire) è che Melancholia in effetti è — rispetto ad Antichrist — un capolavoro, un’opera di grande cinema e di raffinatissimo gusto estetico. Ci sono punti all’attivo: alcune inquadrature (i tableaux vivants dell’incipit sulle note del wagneriano Tristano e Isotta, ma anche le corse a cavallo) sprigionano un’innegabile bellezza, così come alcune scene non possono lasciare indifferenti (la Gainsbourg che non riesce a respirare). E von Trier resta uno dei pochi a conservare, nel bene e nel male, uno stile unico e inimitabile. Più deludente semmai in questo caso il reparto attori, con un cast di tutto rispetto di cui però appare francamente ingiustificata la Palma d’oro a Cannes per l’insipida Kirsten Dunst, mentre l’ottima Gainsbourg si rifugia nel buon mestiere e la Rampling è vergognosamente sprecata; tutti gli altri funzionano, in proporzione alla (scarsa) importanza dei rispettivi personaggi. Justine arriva con il neomarito alla festa di nozze che il cognato e la sorella Claire le hanno organizzato con un ritmato protocollo. Justine sorride molto ma dentro di sé prova un disagio profondo che la spingerà ad allontanarsi in più occasioni dai festeggiamenti provocando lo sconcerto di molti, marito compreso. Nel frattempo, una grave minaccia incombe sulla Terra: il pianeta Melancholia si sta avvicinando e, nonostante il mondo scientifico inviti all’ottimismo, il rischio di collisione e di distruzione totale del globo terrestre è più che mai realistico. La melancholia del titolo è il nome latino per “umor nero”, che trae origine a sua volta dal greco melancholía, composto di mélas, mélanos (“nero”), e cholé (“bile”), quindi “bile nera”. Attenzione: non stiamo parlando quindi di una leggera, dolce tristezza (ciò che si intende comunemente in italiano per “malinconia”), ma di una vera e propria depressione, quella che von Trier dice di aver sperimentato sulla propria pelle e dalla quale sostiene di essere ormai uscito. Ecco, concepire un film in cui la depressione assume la forma di un pianeta in rotta di collisione con la Terra, di un secondo sole (un sole nero, citando il bel titolo di un orrendo film di Zanussi) che da sempre è esistito nascosto dietro al Sole e che minaccia adesso la prosecuzione della vita sul nostro pianeta, è un’idea forse troppo scopertamente metaforica, ma sicuramente affascinante. Un’idea simile avrebbe potuto dare origine senz’ombra di dubbio a un capolavoro di conturbante introspezione psicologica e di sconcertante verità. Avrebbe. Il problema innanzitutto è che von Trier sembra, a dispetto delle sue dichiarazioni, non saperne molto della depressione — o meglio, a guardare il film si ha questa sconfortante impressione. Le tesi per cui chi è depresso penserebbe che il mondo sia un posto orrendo da abitare (dice Justine a un certo punto nel film: «La Terra è cattiva. Non dobbiamo addolorarci per lei. Nessuno sentirà la mancanza. L’unica cosa che so è che la vita sulla Terra è cattiva.») o che la depressione costituisca un reale pericolo per gli altri (qui addirittura ingigantito a fine dell’umanità intera) tradiscono una superficialità particolarmente irritante da parte di chi sostiene di averla vissuta e fanno venir voglia di boicottare il film per la campagna di disinformazione che conduce sul tema — già sufficientemente tabù nella società odierna. Cosa ancor più grave poi, von Trier sembra non sapere granché non solo della depressione, ma nemmeno dei personaggi che lui stesso ha creato — o forse non gli interessano. Cosa sia peggio, delle due, non lo sappiamo, fatto sta che in oltre due ore delle due sorelle protagoniste del film non riusciamo a sapere praticamente nulla, se non ad intuirne vagamente le rispettive personalità: Justine è insoddisfatta del proprio matrimonio e preda di un apparentemente ingiustificato mal de vivre, mentre l’ansiosa Claire cerca disperatamente di tenere sotto controllo la vita sua e dei suoi familiari, fino all’ultimo. Che un film possa non essere incentrato sui personaggi è cosa scontata. Che un film sulla depressione possa rinunciare all’introspezione è già più strano, ma si accetterebbe anche questo se solo il film emozionasse, commuovesse, pulsasse di vita propria e di dolore vero, di uno strazio lancinante (ogni riferimento a Crash di Cronenberg è puramente casuale). Melancholia purtroppo però si limita a un leccatissimo collage di un variegato immaginario cinematografico: da Festen (1998) di Thomas Vinterberg per la prima parte, a Sacrificio (1986) di Andrej Tarkovskij — di cui torna alla mente, tra la citazione pittorica de “Il ritorno dei cacciatori” di Pieter Bruegel il Vecchio, e le riprese aeree avvolte nella nebbia, almeno anche Solaris (1972) — per la seconda, a L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais, con i fagioli della Carrà (sic!) al posto dei fiammiferi. La verità, comunque, è che del destino dei personaggi di Melancholia non gliene frega nulla a nessuno. A von Trier, quanto allo spettatore. La verità è che chi sperimenta la depressione sviluppa una sensibilità che il film di von Trier è lungi dal riuscire anche solo a simulare.