di Ingmar Bergman
Persona, Svezia 1966, drammatico, 79', b/n. Con Bibi Andersson, Liv Ullmann, Margaretha Krook, Gunnar Björnstrand, Jörgen Lindström.
“Dramatis persona” è una locuzione latina usata per definire la maschera indossata dall’attore a teatro. Elisabeth Vogel è una famosa attrice che mentre interpretava a teatro l’Elettra di Sofocle è stata improvvisamente presa da un incontenibile desiderio di ridere, e da allora ha incominciato a rifiutarsi di parlare, chiudendosi in un ostinato mutismo. Alma è l’infermiera che dovrà assisterla. La terapia consigliata dalla dottoressa è il riposo assoluto in una casa al mare su un’isola deserta (l’isola di Fârö, dove Bergman è vissuto fino alla sua morte). Qui le due donne intessono un rapporto che si fa via via più profondo ed enigmatico: Alma confessa segreti sempre più intimi alla sua paziente, e a poco a poco i loro ruoli tendono a ribaltarsi e a sovrapporsi. Persona è uno dei film più sperimentali di Bergman: si apre con una memorabile sequenza onirica, ma è soprattutto l’intreccio che — all’apparenza molto semplice e lineare — si rivela progressivamente meno cristallino di quanto inizialmente, anche a causa di alcuni dialoghi un po’ didascalici che sono tra le poche pecche del film, potrebbe sembrare. All’inizio infatti, le due donne sembrano essere molto diverse: Alma molto loquace e serena, ed Elisabeth completamente muta ed impaurita (dalla vita privata quanto da quella pubblica, come dimostrano le scene dei bonzi che si danno fuoco in Vietnam e del bambino ebreo nel ghetto di Varsavia). Ma progressivamente lo spettatore si rende conto che in realtà esse hanno molto più da condividere di quanto potesse sembrare, man mano che l’infermiera inizia a confidarsi con la sua paziente e a lasciar affiorare, come in una seduta psicanalitica, i traumi repressi del suo passato («Nessuno si era degnato di ascoltarmi, fa così bene parlare»). Nel passato di entrambe le donne c’è un bambino, o comunque una maternità in qualche modo rifiutata; nell’inquadratura immediatamente precedente i (bellissimi) titoli di testa, un bambino si gira verso la macchina da presa e cerca di toccare un volto femminile attraverso un vetro che li separa irrimediabilmente. Ciò che le due donne condividono è la necessità di indossare una “maschera” appunto, di apparire in modo diverso da ciò che sono, con gli altri quanto con se stesse; quella dell’attrice è una vera e propria ribellione, si finge muta pur di non mentire. Elisabeth non vorrebbe essere madre, eppure è costretta ad esserlo. Alla fine Alma dice ad Elisabeth di ripetere una sola parola: «Nulla», e lei lo fa. Ma qual è il confine tra l’essere e l’apparire? E soprattutto, il linguaggio può aiutarci ad esprimere noi stessi, o all’opposto è una vera e propria gabbia che ci impedisce di comunicare? La materia del film suonerebbe pesantemente intellettualistica se Bergman non la trattasse magistralmente, coadiuvato dalle due meravigliosi attrici protagoniste (Liv Ullmann in primis, la cui muta inespressività nel film è di una sconvolgente espressività) e dal suo abituale direttore della fotografia Sven Nykvist, che gioca con chiaroscuri e sovrapposizioni (celebri in particolare i fotogrammi in cui i volti delle due protagoniste si sovrappongono fino a formarne uno solo). Non è certo la prima né l’ultima volta che Bergman tratta un rapporto tra due donne, ma Persona è diverso da altri suoi film, è misterioso e ambiguo — il rapporto tra Elisabeth ed Alma sfocia quasi in qualcosa di vampiresco, o in un amore omosessuale (se ne ricorderà probabilmente Lynch per Mulholland Drive, e non solo per questo aspetto). Proprio in questo mistero, e in questa ambiguità, risiede gran parte del suo fascino.