di Darren Aronofsky
Black Swan , USA 2010, drammatico, 108'. Con Natalie Portman, Vincent Cassel, Mila Kunis, Winona Ryder, Barbara Hershey, Benjamin Millepied, Ksenia Solo, Kristina Anapau, Janet Montgomery, Sebastian Stan, Toby Hemingway, Sergio Torrado, Mark Margolis, Tina Sloan, Christopher Gartin.
È un film molto spiazzante, Il cigno nero di Aronofsky. E diseguale. Per tre quarti della durata insospettisce, turba, irrita, affascina, respinge, incuriosisce, delude, e poi sorprende, emoziona e — inaspettatamente — convince. A New York una compagnia di balletto sta mettendo in scena Il lago dei cigni. Il direttore della compagnia Thomas Leroy decide di sostituire la prima ballerina Beth iniziando una nuova selezione per il ruolo principale. Ben presto il campo si restringe a Nina, bella e brava ma poco espressiva, e a Lily, meno precisa tecnicamente ma molto più sensuale. Il lago dei cigni prevede che la prima ballerina interpreti sia il ruolo dell’innocente Odette (il cigno bianco) che della sensuale Odile (il cigno nero). Aronofsky apre con un balletto che definisce immediatamente la dimensione onirica del film. Mescola stranezze grandguignolesche alla Zulawski, le sue atmosfere putride e malate ed il tema del doppio (ricordate Possession?), a metamorfosi cronenberghiane; minacciose apparizioni fassbinderiane ad ambientazioni e décor vagamente (nemmeno poi tanto vagamente) argentiani. Senza parlare di punti di contatto con un cinema molto più “basso”, quello di un Lamberto Bava (Dèmoni), di un Michele Soavi (Deliria) o di un Peter Del Monte insolito ma decisamente non riuscito (Étoile, che come il film di Aronofsky prende piede da una rappresentazione de Il lago dei cigni per attivare un impianto fantastico soprannaturale). Insomma c’è di tutto, e per buona parte sembra quasi che il film viva di ricordi cinematografici senza riuscire a trovare una propria strada. I personaggi di Cassel e di una comunque brava Barbara Hershey peggiorano il quadro, rasentando una stereotipia che ci piace pensare sia almeno parzialmente programmatica nella sua estremizzazione (il coreografo regista stronzo e seduttore, la madre oppressiva ed iperprotettiva). Lo stesso tema centrale del film — lo scontro tra purezza e sensualità, tra perfezione e imperfezione, tra controllo e abbandono, e la loro complementarità — suona parecchio cerebrale e programmatico. Ed anche le allucinazioni visive della protagonista, il suo delirio malato ed inquietante, puzzano francamente un po’ di fuffa autoriale, così come le scene di sesso (la masturbazione, il lesbismo) sprigionano una sessuofobia preoccupante e un po’ ingenua dal momento che il sesso è vissuto come “trasgressione” e pertanto non è mai davvero liberatorio come si proporrebbe. Tuttavia, ci sono film in cui il tutto conta molto più delle varie componenti e non si ottiene attraverso una semplice somma delle stesse. In cui la pregnante bellezza di certe scene (l’esibizione nel balletto finale che coincide con l’ultima interpretazione) è in grado di far dimenticare limiti anche grandi. In cui lo spessore di un personaggio come quello di Natalie Portman, apparentemente fragile, può emergere a poco a poco da una narrazione imperfetta e da un’interpretazione ugualmente imperfetta (nonostante l’Oscar) ma assolutamente funzionale. Ci sono film che possono irritarci, infastidirci, allontanarci addirittura a tratti, ma che finiscono per emozionarci: come certe persone, sono fatti di imperfezioni, errori, incongruenze, ma hanno un’anima profonda. Il cigno nero appartiene senz’altro a questa categoria ed è anche, non secondariamente, un saggio sull’arte dell’Attore: Nina è, molto prima che una ballerina, un’attrice alle prese con un ruolo da interpretare. L’idea che una vera interpretazione — e quale interpretazione più grande vi è della vita? — non possa che rivelarsi mortale, che interpretare un personaggio (e quindi vivere) equivalga ad essere pronti a lasciare le penne (letteralmente!) sul palcoscenico, che sia necessario soffrire, immaginare, reagire, perdere il controllo razionale di se stessi per fuggire dalla propria gabbia esistenziale e dalla propria repressione, arrivando ad esprimere finalmente se stessi nel Bene e nel Male, fanno de Il cigno nero, nonostante tutto, un bel film.