di Mel Gibson
The Passion of the Christ, USA 2004, religioso, 127'. Con Jim Caviezel, Monica Bellucci, Maia Morgenstern, Mattia Sbragia, Toni Bertorelli, Francesco De Vito, Luca Lionello, Hristo Naumov Shopov, Claudia Gerini, Rosalinda Celentano, Sergio Rubini, Hristo Jivkov, Fabio Sartor, Sabrina Impacciatore, Davide Marotta.
Mel Gibson parte dall’orto del Getsemani, scegliendo di raccontare solo il finale della “più grande storia mai raccontata”. Tutti quegli avvenimenti che in genere, nella filmografia cristologica, vengono risolti in poco più di una ventina di minuti si dilatano in questo modo a dismisura in due ore abbondanti di pellicola, mentre il compito di riassumere la Parola di Gesù Cristo grava tutto su qualche breve e superficiale flashback. Come dice il titolo, del resto, questa è La Passione di Cristo. Gibson riprende l’ambientazione nel Sud Italia de Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini (il film è stato girato per intero in Italia, con esterni a Matera e Craco ed interni a Cinecittà) ed affida la maggior parte dei ruoli secondari ad attori italiani: c’è la Bellucci che fa Maria Maddalena e come al solito non parla molto, anche se l’espressione sofferente le si confà; Rosalinda Celentano che interpreta un Satana di rara pochezza immaginativa; la Gerini che fa la moglie di Pilato, passando dal romanesco di Viaggi di nozze al latino lingua morta; l’Impacciatore che dà vita alla leggendaria Veronica, la donna che asciuga con un panno di lino il volto del Cristo durante la sua salita al Calvario; Sergio Rubini che fa Disma, il ladrone che viene crocifisso alla destra di Gesù. Il film alla sua uscita sollevò innumerevoli polemiche, soprattutto per le accuse di eccessivo ricorso alla violenza (anche se, solo in Italia, uscì senza alcun tipo di censura: quando si dice “due pesi, due misure”) e di antisemitismo. Al di là di tali accuse — assolutamente fondate — appare però evidente agli occhi di qualsiasi spettatore un minimo smaliziato che La Passione di Cristo non possiede innanzitutto alcuna dignità cinematografica: la messinscena ricorda molto da vicino le fiction religiose televisive a puntate, una somiglianza che la scelta di girare il film interamente in latino ed aramaico cerca tanto disperatamente quanto inutilmente di allontanare; mentre gli ostentati e non troppo originali ralenti l’accomunano al peggior Ridley Scott. Tutto ciò con l’aggravante di un ridicolo gusto per l’eccesso che non si limita sfortunatamente solo allo splatter — per cui ogni colpo inferto sul Cristo lo trasforma sempre più in un cadavere lordato di sangue — ma che si estende anche ai caratteri (!) dei personaggi, a partire dai romani cattivoni, sadici come nemmeno i “Signori” di Salò o le 120 giornate di Sodoma (Gibson dev’essere un fan di Pasolini…), nonché amanti delle pratiche BDSM. Tutto è sopra le righe e tutto sprizza un cattivo gusto che supera l’umana immaginazione; tutto è all’insegna di un malsano voyeurismo ricattatorio che ha spinto qualcuno ad accostare, giustamente, la pellicola ad un film pornografico. Il Cristo di Gibson non è altro che un manichino unidimensionale che sembra non aver niente di interessante da dire, o meglio che ha già detto tutto quello che aveva da dire prima che il film iniziasse. Ciò che in assoluto convince di meno è infatti, come detto, la scelta di soffermarsi quasi esclusivamente sulla Passione. Con la conseguente sensazione di assistere a una specie di perverso “horror sacro”, nel quale — come in qualsiasi horror — non si prova alcuna emozione di pietà nel vedere massacrato un uomo che ha la consistenza di una figurina. Semmai, si prova irritazione, dal momento che di film horror non si tratta. O al massimo, si ride di gusto per l’involontariamente comica resurrezione finale in stile-Terminator, con i buchi nei palmi delle mani (sic!). Al termine della visione de La Passione di Cristo si resta tuttavia con due enormi certezze: primo, che gli spettatori farebbero senz’altro meglio a mettere via il loro cervello in una scatola quando decidono di vedere certi film; e secondo, che il reazionario Mel Gibson purtroppo dovrà — col passare degli anni e l’incedere della vecchiaia — farsi a poco a poco una ragione del fatto che il film più bello, emozionante e finanche religioso su Gesù Cristo l’abbia girato un comunista ateo ed omosessuale.