di John Carpenter
John Carpenter’s The Ward, USA 2010, horror, 88'. Con Amber Heard, Mamie Gummer, Danielle Panabaker, Laura-Leigh, Lyndsy Fonseca, Mika Boorem, Jared Harris, Sydney Sweeney, Sean Cook, Milos Milicevic, Jillian Kramer, Sali Sayler, D.R. Anderson, Susanna Burney, R.J. Hampton.
John Carpenter ritorna al cinema dopo quasi dieci anni (l’ultimo, bellissimo Fantasmi da Marte era del 2001): nel frattempo, solo due episodi per la serie televisiva Masters of Horror, mediocri checché se ne dica. Ed anche questo The Ward è decisamente una delusione. Kristen, una bella e problematica ragazza, si ritrova rinchiusa nel reparto di un ospedale psichiatrico dopo aver bruciato una fattoria, coperta di lividi e tagli, senza nessuna memoria degli eventi precedenti il suo ricovero. Le altre pazienti non riescono a fornirle delle risposte, e Kristen si renderà conto ben presto che il reparto nasconde dei terrificanti segreti: nell’istituto si aggira una terrificante presenza, un fantasma che inizia a eliminare le altre pazienti. Dopo un incipit che fa ben sperare e dei titoli di testa più elaborati della media dei film di oggi, The Ward si accascia ben presto in atmosfere a metà tra Qualcuno volò sul nido del cuculo (il personaggio dell’infermiera di reparto ricalca in modo imbarazzante quello di Louise Fletcher nel film di Milos Forman) ed un horror giapponese fatto di presenze astratte eppure molto concrete. Ma senza una suspense degna di questo nome, senza appunto quella concretezza in grado di rendere verosimile l’inverosimile. Non a caso, i meccanismi della paura — o meglio sarebbe dire, del presunto spavento — messi qui in atto, con presenze oscure che spuntano da un momento all’altro da dietro l’angolo, ricordano purtroppo molto più da vicino filmettini come The Messengers (2007) che horror con la “H” maiuscola come Dark Water (2001) di Hideo Nakata. Carpenter calca la mano sulla violenza più truce come l’ultimo Dario Argento, credendo che eccedere equivalga a trasgredire, e come lui, pur conservando a differenza del collega italiano un certo decoro a livello formale, spesso non riesce ad evitare il ridicolo involontario; mentre il finale, che vorrebbe risultare imprevedibile e spiazzante, è in realtà visto e stravisto, ed anche di recente (Shutter Island). Che cosa distingue quindi alla fine il film di Carpenter da un qualsiasi horrorino hollywoodiano? Quasi nulla, forse giusto qualche movimento di macchina. Davvero troppo poco per riuscire a mitigare quel senso di amarezza intenso tipico dei fan: che tristezza, che tempi bui.