lunedì 4 aprile 2011

Non lasciarmi

di Mark Romanek

Never Let Me Go, Gb / Usa 2010, drammatico, 103'. Con Carey Mulligan, Andrew Garfield, Keira Knightley, Charlotte Rampling, Sally Hawkins, Nathalie Richard, Andrea Riseborough, Domhnall Gleeson, Isobel Meikle-Small, Ella Purnell, Charlie Rowe.

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Locandina italiana

Era da tempo che un film non mi trasmetteva emozioni così forti, tanto intense da sfociare quasi in un dolore fisico acuto e lancinante. Quando ho preso coscienza del destino dei due protagonisti del film, avrei voluto abbandonare la sala, allontanarmi da quel luogo; un po’ come quando di notte si è immersi in un incubo particolarmente vivido ed eppure si conserva ancora la consapevolezza del sogno, e ci si vorrebbe svegliare per mettere fine a quello che si è consci essere “solo” un sogno, ed eppure appare così tangibile e reale. Ogni tanto, per fortuna, capita ancora di andare al cinema, prendere posto nel buio della sala e riuscire — come per miracolo — ad entrare in un film, varcando quei confini che separano il mondo reale dalla finzione: percepire un film con tutti i sensi, senza limitarsi a guardarlo dall’esterno solo con gli occhi, ma vivendolo sulla propria pelle, in prima persona. Ci sono film di cui, al termine della proiezione, non si serba il semplice ricordo della visione di un “film”; ci sono film  di cui si conserva il ricordo dei propri passi che ancora sembrano riecheggiare in quei luoghi; della suola delle proprie scarpe che affonda nell’erba di un prato; dell’aria che si respirava, del calore confortante di un abbraccio; dei pensieri, delle emozioni, delle illusioni provate in “quei” momenti, e poi magari disattese. Un po’ come quando, al risveglio da un sogno particolarmente nitido, non si ha un ricordo di irrealtà e finzione, ma di un’esperienza realmente vissuta, per quanto inverosimile potesse essere. Il cinema è l’arte che più di tutte si avvicina alla materia di cui sono fatti i sogni (e gli incubi), è notorio: il punto è che non si tratta solo di un modo di dire. Tutto questo l’ho scoperto per la prima volta da bambino ad otto anni quando ho realizzato, con Jurassic Park, che il cinema è davvero una finzione reale, e da allora aspetto e spero sempre di poter riprovare in qualche modo quelle stesse emozioni. Emozioni di bellezza, di speranza, di paura, di grandezza, di gioia, di rabbia, ogni emozione bella o brutta ha una sua ragion d’essere e contribuisce a farci sentire vivi e pulsanti. Certo, riuscire a farsi inghiottire da un film non è facile e dipende, forse ancora più che dal film, dallo spettatore, da chi è lui, da dove viene e dove sta andando, dai suoi desideri e paure, ansie, preoccupazioni. Oltre che da alcuni fattori molto più contingenti e all’apparenza banali, come lo stato d’animo del giorno in cui si vede il film o semplicemente la sala in cui lo si vede: è per questo motivo che ho deciso di parlare di questo film rivolgendomi al lettore in prima persona singolare. Senza dimenticare che da adulti è raro ritrovare la sensibilità e l’ingenuità dell’infanzia (è proprio vero che per poter apprezzare ogni film “a pieno”, si dovrebbe poter tornare bambini ogni volta!), ma ogni tanto il “miracolo” succede ugualmente. Era un bel po’ che non mi succedeva (gli ultimi esempi che io ricordi risalgono a I figli degli uomini e 4 mesi 3 settimane 2 giorni), ma è successo ora di nuovo con Non lasciarmi. Un film per il quale non voglio usare aggettivi banali come “bello” o “straordinario” perché sarebbero limitanti e fuori luogo, per i motivi di cui sopra. Un film di cui svelare la trama è un vero delitto, per cui se avete letto fin qui vi invito caldamente a sospendere la lettura fino a quando non lo avrete visto. Un film che rompe qualsiasi schema precostituito e modalità comunicativa stereotipata per parlare direttamente allo spettatore, senza preoccuparsi di seguire qualsivoglia logica razionale o coerenza narrativa. Se analizzati in base a criteri di mera verosimiglianza, i comportamenti dei personaggi appaiono infatti spesso assolutamente irrazionali e addirittura folli. Tratto dal romanzo omonimo del 2005 di Kazuo Ishiguro (l’autore giapponese naturalizzato britannico di Quel che resta del giorno, che figura anche tra i produttori esecutivi), Non lasciarmi è incentrato sulle vite di tre ragazzi — Kathy, Tommy e Ruth — che trascorrono la loro infanzia ad Hailsham, una scuola isolata nelle campagne inglesi, senza alcun contatto o conoscenza del mondo esterno. Poco prima di lasciare la scuola, che avvertono protettiva e rassicurante, una terribile verità si rivela però ai tre: ad Hailsham gli esseri umani vengono clonati e cresciuti al solo scopo di fornire organi per i trapianti e salvare così altre persone. Le loro vite sono programmate fin dall’inizio: una volta divenuti maggiorenni, verranno mandati in alcuni cottage a prepararsi per il loro compito primario, quello di diventare prima “assistenti” e poi “donatori”. Gli assistenti sono i cloni che, ormai maggiorenni, si occupano di assistere moralmente chi è allo stadio più avanzato, quello di donatore. Ad ogni modo, tutti i cloni vengono scelti, col tempo, per le donazioni: una, due, tre, quattro donazioni a seconda di quanto bene reagiscono alle operazioni. Non lasciarmi (ma il titolo originale è Never Let Me Go, “non lasciarmi mai”, che allude, in felice e crudele contrapposizione ai destini dei protagonisti, alla canzone che Tommy regala a Kathy: «Darling, hold me, hold me, hold me, and never, never, never, let me go») è un’opera sulla finitezza intrinseca di ogni vita umana, sull’ineluttabilità del proprio destino e sull’illusoria speranza di una possibilità di salvezza tramite l’amore e l’arte. Raccontato attraverso la voce fuori campo di Kathy (il cui cognome è solo “H.”: la mutilazione anagrafica non è ovviamente casuale), che gli conferisce fin da subito un tono intimista, è un film di un pessimismo radicale, che prende allo stomaco ancora prima che al cuore o alla testa. I tre protagonisti, così come del resto gli altri cloni che vediamo nel film, accettano il loro destino senza alcun moto di ribellione e vanno dritti incontro al loro tragico destino senza immaginare nemmeno una possibilità di cambiamento. Se non fosse per la forza dei loro sentimenti e per le relazioni sociali (di amicizia o amore) che intessono con i loro simili, probabilmente non si opporrebbero in alcun modo al ruolo sociale che altri hanno scelto per loro: la loro passività è una metafora ingigantita — tutto il film funziona come una spessa lente d’ingrandimento — della forza accecante, repressiva e omicida dell’educazione. Ma come i replicanti di Blade Runner, anche i cloni di Non lasciarmi sono “più umani degli umani”, capaci di amare e  di provare emozioni molto più di chi, insensibile ed egoista, li ha creati. C’è qualcosa di terribile ma molto familiare nella quieta e rasserenata naturalezza con cui i personaggi accettano almeno inizialmente il loro destino; nella vuota vastità di certi panorami che si contrappongono ad interni spesso claustrofobici; nell’ineluttabilità di un destino che non si può cambiare in alcun modo, neppure “dimostrando” il proprio amore; nella contrapposizione tra l’agghiacciante serenità di una totale rassegnazione e la lancinante disperazione della (dis)illusione di un cambiamento (indimenticabile l’ultima esplosione di collera di Tommy, annegata in un buio davvero soffocante). I tre giovani attori protagonisti sono tutti bravissimi, anche se l’ottima Carey Mulligan è speciale: nella contrapposizione tra il suo sguardo, impaurito e rassegnato, e quello di Charlotte Rampling, gelido e senza cuore, è racchiuso forse il senso di tutto il film.  Mentre un sottile filo rosso invisibile collega la Ruth di Keira Knightley alla Cecilia di Espiazione, così come i loro destini. La regia di Mark Romanek (One Hour Photo) può sembrare inizialmente anonima e convenzionale, ma c’è del talento nella sensibilità che si sprigiona dalla scelta degli ambienti (le scenografie sono firmate da Mark Digby, premio Oscar nel 2008 per The Millionaire) e nella calda freddezza con cui il regista accompagna i suoi personaggi al loro tremendo destino. Qualche riserva resta semmai sulla prima parte, ambientata in un collegio che fa forse un po’ troppo “villaggio dei dannati”, e su alcune lacune narrative che tuttavia lo spettatore può colmare con la sua immaginazione. Il pregio più grande di Non lasciarmi è l’aver saputo resistere alla tentazione di far emergere in superficie i generi cinematografici presenti nella trama (fantascienza, mélo, horror) e averli lasciati scorrere quasi come canali sotterranei, stroncandoli come l’amore dei tre protagonisti in favore di una narrazione che sceglie coraggiosamente un taglio naturalistico e reale. Reale come la sensazione che si prova nella vita ogni qualvolta ci si illude — sognando ad occhi aperti — di poter ottenere un “rinvio”, ed invece si è costretti, ancora una volta, a lasciarsi asportare una parte di se stessi perdendola per sempre, senza potersi opporre. Finché si riesce a sopravvivere, finché non si è donato tutto se stessi. Consapevoli che la vita non è fatta d’altro che di istanti, pause, attimi fugaci di tranquillità nei quali possiamo ammirare, seduti su una spiaggia insieme alle persone che più ci sono care, l’orizzonte sconfinato ed una nave che potrebbe restare per sempre arenata. Tra una “donazione” e l’altra, forse l’ultima, chissà.

Non lasciarmi