di Nanni Moretti
Italia / Francia 2001, drammatico, 99'. Con Nanni Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Silvio Orlando, Stefano Accorsi, Claudia Della Seta, Sofia Vigliar, Renato Scarpa, Roberto Nobile, Paolo De Vita, Roberto De Francesco, Claudio Santamaria, Antonio Petrocelli, Lorenzo Alessandri, Alessandro Infusini, Silvia Bonucci, Marcello Bernacchini, Alessandro Ascoli, Stefano Abbati, Toni Bertorelli, Dario Cantarelli, Eleonora Danco, Emanuele Lo Nardo.
La stanza del figlio è — prima ancora di un film sul lutto e sulla sua elaborazione — un film sulla famiglia. La famiglia in questione è composta da Giovanni (uno psicanalista), dalla moglie Paola e dai due figli, Andrea ed Irene. La loro vita piena di armonia e tranquillità viene improvvisamente travolta nel momento in cui Andrea, durante una delle sue consuete immersioni da appassionato di subacquea, ha un incidente e, colto da embolia, muore. Si dice spesso che il cinema italiano d’oggi non sa parlare d’altro che di famiglie in crisi ed adolescenti, di quarantenni immaturi, di vacanze per minorati mentali. Lo dice Quentin Tarantino e, al di là di generalizzazioni più o meno contestabili, è difficile dargli torto. Lo dice Tarantino, che riguardo al regista di Bianca afferma: «Moretti fa le sue cose, è uno che porta energia vitale e respiro al cinema». Io non sono un fan di Tarantino né sono un fan particolarmente accanito di Moretti, specie dell’ultimissimo (Il Caimano e Habemus Papam). Ma La stanza del figlio, Palma d’oro a Cannes 2001, è a mio avviso un film bellissimo ed uno dei più riusciti del regista, nonostante sia da annoverarsi senza dubbio tra i meno “morettiani”: a differenza delle altre sue opere, questo film presenta infatti per la prima volta una solida struttura narrativa, tanto compiuta da potersi definire quasi infallibile (la bellissima sceneggiatura è firmata dal regista con Linda Ferri e Heidrun Schleef); inoltre, scompare il “personaggio” Moretti, nascostosi per anni ed anni sotto lo pseudonimo di Michele Apicella e messo in scena finalmente in prima persona solo nei due film precedenti (Caro diario e Aprile). Qui Moretti infatti non solo non è più Apicella, non è nemmeno più se stesso: è un padre di famiglia come ce ne sono tanti, non è “Nanni Moretti”. E il miracolo è che lo si vede sullo schermo e ci si crede; che sia il padre di Andrea ed Irene e il marito di Paola. Oltre a distaccarsi dalla frammentarietà tipica dei precedenti film, La stanza del figlio appare anche molto più curato a livello puramente formale — e addirittura a livello cromatico, grazie a una bella fotografia di Giuseppe Lanci. Ma questi sono solo meriti e maturazioni del Nanni Moretti attore e regista, direte voi, e non bastano a fare un bel film. Infatti è così. Se La stanza del figlio è un’opera riuscita, i motivi sono altrove. E non mi riferisco certo al presunto “coraggio” di affrontare un tema difficile e pesante come un lutto familiare; anche perché il sospetto opposto, di una furbizia molto cinica e immorale che non si ferma davanti a temi importanti pur di far discutere e mettersi al centro dell’attenzione, potrebbe farsi strada oggi anche alla luce dei temi affrontati dal regista nelle pellicole immediatamente successive (dopo Berlusconi e il Papa, di cosa parlerà Moretti nel suo prossimo film?). Sospetto che però è decisamente tenuto alla larga in questo caso da una sincerità che è il vero punto di forza del film. Ecco, La stanza del figlio è un film sincero, vero, addirittura vitale nonostante il tema trattato, e non ha niente della programmaticità e artificialità dei successivi due film. Vediamo sullo schermo questa famiglia unita e divisa nel dolore, e l’immedesimazione — grazie anche al contributo degli attori, tra i quali spiccano la “rivelazione” Jasmine Trinca e soprattutto una Laura Morante che qui varca davvero i confini tra realtà e finzione — è totale. Basterebbe la scena in auto con la premonitrice Insieme a te non ci sto più di Caterina Caselli (già sentita in Bianca) a dimostrare come La stanza del figlio sia un film pudico, delicato, magistrale nel mettere in scena gli inesprimibili tessuti affettivi che legano i componenti di una famiglia che sarà divisa e allontanata dal dolore di un lutto. Che Moretti mette in scena con una crudezza che non solo non arretra dinnanzi a nulla, ma che sfocia addirittura in quell’inverosimiglianza che rende la finzione più vera del vero (la bara sigillata davanti ai familiari, con tanto di trapano e viti). Mentre l’accostamento tra le nevrosi “astratte” dei vari pazienti dello psicanalista da un lato, e la concretezza devastante del suo lutto dall’altro, appare forse un po’ prevedibile e superficiale, così come il finale aperto, con i tre personaggi che camminano seguendo traiettorie divergenti, rischia di risultare troppo banalmente metaforico. Ma sono peccati veniali, che la veridicità di una messinscena complessa nella sua semplicità (volendo, visto il vistoso maglione rosso indossato dal “figlio”, c’è spazio anche per un’interpretazione politica del film, nel solco del discorso sulla crisi — morte? — della sinistra avviato nelle pellicole precedenti) non fatica a far dimenticare, grazie anche ad un’ambientazione funzionale (la città di Ancona con la sua geografia schiacciata, fatta di saliscendi compressi fra il mare e la montagna) e ad una delle più belle colonne sonore mai composte da Nicola Piovani.