di Ingmar Bergman
Smultronstället, Svezia 1957, drammatico, 91', b/n. Con Victor Sjöström, Bibi Andersson, Ingrid Thulin, Gunnar Björnstrand, Jullan Kindahl, Folke Sundquist, Björn Bjelfvenstam, Naima Wifstrand, Gunnel Broström, Gertrud Fridh, Sif Ruud, Max von Sydow.
Il capolavoro di Bergman (Orso d’oro al Festival di Berlino) avrebbe potuto intitolarsi, citando il bellissimo film di James Ivory, “Quel che resta del giorno”. L’anziano protagonista del film si chiama Isak Borg ed è un medico che è stato insignito di un prestigioso premio accademico e deve dunque recarsi a Lund per ritirarlo. Iniziata la giornata con un incubo premonitore degno di Salvador Dalí, decide al risveglio di non prendere l’aereo e di affrontare il viaggio in macchina, in compagnia della nuora Marianne che si offre di fare il viaggio con lui. Lungo il tragitto, il vecchio professore rincontrerà i luoghi della sua infanzia (primo fra tutti, il posto delle fragole del titolo), farà diverse conoscenze, ed avrà modo di formulare un bilancio della sua vita. Che è fallimentare sotto diversi aspetti: per aver dato più importanza al lavoro e alla carriera che non ai sentimenti (la cugina Sara da lui tanto amata si era poi sposata con il fratello, mentre a lui era toccato un matrimonio infelice), per essere stato avaro ed egoista nei confronti del figlio (come lo accusa la nuora Marianne), per essersi rifugiato alla fine in un’amara solitudine ed aver perso la fiducia nel prossimo. Isak Borg si trova davanti alla morte. Arrivati a una certa età, alla quale curiosamente Bergman non era ancora giunto (all’epoca non aveva ancora nemmeno quarant’anni), si inizia a guardare in faccia la Morte, che proprio Bergman aveva saputo personificare così bene in un altro suo famoso film (ovviamente, Il settimo sigillo). Isak Borg la incontra in sogno all’inizio del film, e non può rifuggire quello sguardo che durante tutta la sua vita ha, come chiunque di noi, evitato. Si rende conto di non aver vissuto “appieno” la sua vita. Ma vivere significa forse non fare errori? No. Vivere semmai significa proprio accumulare errori — ma saperli accettare. In fondo il titolo stesso del film coincide con un ricordo d’infanzia del protagonista, piacevole ma al contempo amaro, essendo legato alla sua più cocente delusione d’amore. I giovani e meno giovani che lo circondano non sono, inoltre, molto diversi da lui: la nuora ha un rapporto conflittuale con il marito, un’altra coppia letteralmente scontrata per strada non si dimostra più matura (anzi), i giovani litigano discutendo dell’(in)esistenza di Dio (è forse l’unico tratto datato del film), la madre ultranovantenne si lamenta perché nessuno tra i suoi numerosi nipoti e pronipoti la va a trovare, a meno che non abbiano bisogno di qualcosa. Di conseguenza, il secondo incubo del film, il processo cui il professore viene sottoposto, non ha alcun senso. È un auto-giudizio che il protagonista s’impone, ma che non ha ragione di esistere. Il posto delle fragole è come una seduta psicanalitica durante la quale si impara che non ci si può auto-processare e condannarsi alla solitudine per aver commesso degli errori: è come rimproverarsi di aver vissuto. Ecco dunque che il professore torna a casa, tratta meglio la governante, cerca di riconciliare la nuora con il figlio, e poi si fa condurre per mano dall’amore mancato della sua vita fino a ricongiungersi con i suoi genitori: adesso così lontani, eppure così vicini. Il grande regista e attore svedese Victor Sjöström, che sarebbe morto soli tre anni dopo le riprese, è lo straordinario protagonista di questo meraviglioso road-movie della memoria.