di Saverio Costanzo
Italia / Germania / Francia 2010, drammatico, 118'. Con Alba Rohrwacher, Luca Marinelli, Arianna Nastro, Vittorio Lomartire, Aurora Ruffino, Isabella Rossellini, Maurizio Donadoni, Filippo Timi, Martina Albano, Tommaso Neri, Giorgia Pizzo.
Il titolo (bruttarello) del film — e del bestseller di Paolo Giordano da cui è tratto — allude a quei numeri primi speciali (ad esempio, l’11 e il 13) che i matematici chiamano “gemelli”, siccome differiscono tra loro di due sole unità che, fatta eccezione per il 2 e il 3, è la più piccola distanza possibile tra due primi. Alice e Mattia sono due ragazzi la cui vita è stata segnata in gioventù da fatti tragici. Lei è rimasta zoppa in un incidente sciistico, mentre lui si è reso responsabile della morte della sorellina autistica. Si conoscono al liceo, dove uniscono le loro solitudini di “diversi” e disadattati (ma la maggior parte dei ragazzini di oggi li definirebbe sfigati) in un’amicizia che nel corso degli anni evolverà forse in qualcosa di più. “C’era una volta il cinema italiano”, avrebbe dovuto intitolarsi questo film. Saverio Costanzo, alla sua terza prova, apre il film con una scena visionaria, un “teatro degli orrori” su musica inedita dei Goblin. E gli orrori — come mostrerà il film nel suo prosieguo — non sono certo mostri, streghe o vampiri, bensì famiglie, padri, madri, fratelli, compagni di scuola. Che possono rendere una vita davvero infernale, basta vedere la mamma di Mattia (una Isabella Rossellini che calca un po’ troppo la mano nella rappresentazione di una crudeltà interiorizzata), o il papà di Alice. Non a caso, Dario Argento è citato esplicitamente in colonna sonora, con un brano di Morricone tratto dal suo L’uccello dalle piume di cristallo. Non a caso perché nella maggioranza dei suoi film, se si eccettuano le incursioni puramente horror, il Male allignava sempre in entità molto umane (e molto familiari). Il tema sarebbe quindi molto interessante nonché bellocchiano, ma purtroppo nel film viene affrontato miseramente, tramite un intreccio che definire pasticciato è un eufemismo, con ragazzini che recitano male, adulti che recitano peggio dei ragazzini, inquadrature da fiction televisiva ed inquadrature bellissime ma che sembrano messe lì apposta per ricordare che «questo non è un film di genere, no, questo è un film d’autore». Certo, come no. Quando Alice adolescente cade in discoteca e tutti si mettono a ridere viene in mente Jennifer Connelly in Phenomena alle prese con le sue compagne di collegio; ma per Argento la diversità non era sfiga da eliminare cercando di omologarsi agli altri, era al contrario bellezza e purezza da opporre fermamente all’orrore del mondo. Le digressioni oniriche del film poi sono davvero sconfortanti, la scena in cui Alice attraversa un corridoio di foglie passando da una casa all’altra sembra uscita — questa sì — dal peggior Argento (La sindrome di Stendhal). E il finale, con l’ottima Alba Rohrwacher costretta dal regista a replicare passo-passo le movenze di Monica Vitti in una ingombrante citazione (ma io lo chiamerei più “plagio”) della conclusione de L’avventura di Antonioni, sembra tanto uno di quegli omaggi amatoriali che i cinefili pubblicano di tanto in tanto su YouTube. Davvero orrenda anche la locandina.